Isabella Bordoni

L’arte che trova parole per la vita: intervista ad Isabella Bordoni

Isabella Bordoni è un’artista poliedrica, la cui produzione spazia dalla poesia alle arti visive. Sfruttando le possibilità offerte dall’arte performativa, la Bordoni si muove attraverso differenti ambiti espressivi, unendo teatro, performance collettiva, musica, poesia ed eventi visivo sonori, compone un quadro caleidoscopico nel quale si sposano arte e nuove tecnologie. Il suo percorso artistico si innesta sull’idea di arte interattiva, alla quale applica le potenzialità fornite dai nuovi strumenti digitali, che a partire dagli anni Ottanta diventano per molti artisti uno strumento fondamentale per fare arte in maniera condivisa. Appartiene a questo periodo infatti la sua collaborazione con il collettivo artistico “Giardini Pensili”, che attraverso il linguaggio delle arti sceniche ed a contatto con i nuovi sistemi di comunicazione, propone un innovativo progetto artistico.

Creare uno spazio di relazione, non solo tra diverse arti, ma tra queste e la vita stessa, diluendo i confini tra i linguaggi espressivi, è questa la sfida che porta avanti Isabella Bordoni. Un progetto creativo il suo nel quale la parola poetica occupa una posizione privilegiata, con la sua capacità disvelatrice ed il potere di farsi materia e spazio di una nuova funzione sociale.

still frame dall'installazione interattiva "LACRIMA ( E VIVE)" commissione Palazzo delle Papesse, Centro d'arte contemporanea, Siena (I) 2003
Still frame dall’installazione interattiva “LACRIMA ( E VIVE)” commissione Palazzo delle Papesse, Centro d’arte contemporanea, Siena (I) 2003

Quando ed in che modo è iniziato il suo percorso artistico?

Sono nata artisticamente alla metà degli anni ’80, all’interno della scena italiana del teatro di ricerca e in quella nord-europea delle arti elettroniche e digitali; fu soprattutto l’orizzonte europeo a comporsi come esperienza formativa per me determinante. Alla metà degli anni ’80 erano ancora da venire in Italia alcuni procedimenti drammaturgici e il pensiero critico che li avrebbe successivamente accompagnati, in tale contesto il mio lavoro insieme a quello di altri artisti fu in un certo senso pionieristico. Invece in Europa, in paesi come Austria e Germania e grazie ad una rete dove si faceva ricerca con le tecnologie nella loro relazione con la scena – penso al FutureLab di Ars Electronica Center di Linz e il laboratorio di artisti che crebbe intorno a Kunstradio, a Vienna – fu naturale abbattere le barriere tra i linguaggi definiti “artistici” e quelli definiti “tecnici”. Furono esperienze innovative nella loro capacità di superare quei confini per muoversi verso un’autentica autorialità condivisa. Successivamente, ho sempre cercato di affrontare con l’arte le questioni della comunità pensandola non come “oggetto” di ricerca ma pensando me come parte del suo soggetto esteso. In tal senso la domanda, che ancora oggi in certi contesti si pone, se esista una distinzione e quale tra “arte” e “vita” (o tra creazione e produzione) è per me, per la mia biografia umana e artistica, anacronistica e infruttuosa.

Lei sfrutta differenti linguaggi espressivi, in che modo si intrecciano per delineare la sua poetica?

Vengo dalla poesia e alla poesia torno ogni volta, con qualsiasi progetto dell’arte. Sia che tale progetto abiti ed elabori un pensiero scenico ed un’azione teatrale o performativa, sia che esso interroghi lo spazio pubblico e delle relazioni, sia che esso si muova nella produzione di processi pedagogici, o che cerchi nella filosofia o nella natura propri spazi di risonanza. Mi interessa della poesia, naturalmente, la pratica della scrittura, ma anche quel suo etimo che va nella direzione pubblica, quel suo “fare” del corpo e della mente, gesto e pensiero del mondo. La poetica alla quale tendo abita esattamente questo “farsi mondo” che i diversi linguaggi (che per convenzione chiamiamo multimediali) possono mettere in atto nel momento in cui si interrogano e mi interrogano.

L’idea di opera d’arte totale è calzante riferita al suo lavoro?

Ricordo un articolo uscito su “Paese Sera” scritto da Filiberto Menna non ricordo se nel 1987 o ‘88, dopo aver visto per la prima volta un mio lavoro. In verità è parziale dire “mio”: credo infatti che l’aggettivo possessivo sia spesso e per molti, improprio, è un parola che preferisco non usare e alla quale do scarso credito quando la sento usare con insistenza, preciso dunque che il “mio” lavoro di allora era in seno a “Giardini Pensili” e lo spettacolo in questione si chiamava “Corrispondenze Naturali”. Filiberto Menna titolò quello scritto assai bello, “Cercando l’opera d’arte totale”.  Alla tua risposta rispondo “sì”, pur con tutte le trasformazioni e i diversi gradi di consapevolezza che il lavoro che porto avanti ha attraversato nel tempo. Ciò che rimane saldo è il desiderio di trovare con l’arte parole per la vita. In questa prospettiva l’”opera d’arte totale” che intendo non è un lavoro d’accumulo che ha nel mixed media il luogo di incontro tra più linguaggi, quanto piuttosto quell’atto creativo e espressivo che può essere letto attraverso diversi codici linguistici, come “opera totale” benché assolutamente parziale nel “qui ed ora” del suo accadimento.

In particolar modo la poesia secondo lei ha ancora uno spazio d’azione oggi? C’è curiosità nelle nuove generazioni?

Credo che oggi ci sia spazio soprattutto per la poesia. Questo spazio c’è perché è immenso lo spazio della sua necessità. Credo che questo tempo a noi contemporaneo, il nostro “oggi”, sia di nuovo un tempo poetico. Spesso negli anni ho sentito la poesia e l’arte che a me interessava praticare, erano anticipatrici e destinate a sostenere una quota di incomprensione con il presente. Oggi invece sento che la stessa poesia è arrivata ad essere contemporanea al nostro tempo, capace di incidere i nostri corpi, le nostre vite resistenti. Forse questo può volere dire che “questo” tempo è un tempo poetico perché è anche un tempo profetico. In effetti siamo in “qui ed ora” nel quale molti sistemi identitari si sfrangiano e qualche cosa che ancora non conosciamo si prepara ad essere.

Cosa intende per poetry.scapes?

Ho iniziato a usare il termine “poetry.scapes“ nel 2001, per indicare una famiglia di progetti che ri-guardava gli spazi urbani e naturali e le poetiche della loro ri-lettura e ri-scrittura.

Pensato come progetto permanente che porta con sé la locuzione percorsi di cittadinanza poetica”, si è espresso attraverso mappature condotte a piedi, per riflettere intorno agli stati di cittadinanza e alla percezione delle città, delle periferie, della natura, dei corpi comunque nomadi e migranti, e sviluppa formati differenti che vanno dall’allestimento nello spazio pubblico a progetti video e/o sonori, a eventi performativi, alla formazione, a incontri e workshop attraverso i quali è possibile tracciare geografie poetiche e politiche degli spazi, dei territori e delle relazioni umane.

Il concetto di rete sociale, che le nuove tecnologie informatiche hanno contribuito a sviluppare, che ruolo ha nella sua arte?

La rete, i sistemi e le piattaforme di comunicazione sociale, hanno avuto un posto effettivamente significativo nel mio lavoro, sia in termini espressivi sia in termini di ricerca. Oggi, per quanto mi riguarda, la loro rilevanza si sposta altrove. La rete ha di fatto innescato processi creativi, ha contribuito a creare immaginari e a sostenere invenzioni narrative, ma come nel tempo sono cambiati per me i modi di fare e di pensare l’arte, così è cambiato il modo di pensare la rete. Credo che essa sia strumento significativo quando è eversivo, se si fa portavoce di linguaggi diversamente censurati. Ho visto di recente a Parigi, a l’Institut du Monde Arabe, la mostra “Dégagements…la Tunisie un an aprés”  dedicata al lavoro di giovani artisti a un anno dalla rivolta tunisina. In situazioni dove la rete è il luogo capace di veicolare informazione fuori dal mainstream, si attuano le sue possibilità di creare narrazioni; possibilità che in situazioni più protette da tempo si accontentano di farsi decoro e auto-celebrazione.

Qual è il messaggio che vorrebbe lanciare con il suo lavoro?

E’ talmente complessa questa domanda che non sono in grado di rispondere. Ci sono diversi livelli di consapevolezza nel corso di un lavoro che si porta avanti da oltre venti anni, anche diversi stadi tra maggiore e minore intenzionalità del proprio essere e del proprio fare; non sempre ciò che si lascia è ciò che si vorrebbe, né è certo che ciò che si vorrebbe lasciare è ciò che veramente si lascia. Forse più che messaggi possiamo lasciare testimonianze. Del mio passaggio, nell’arte e nella vita, mi piacerebbe che fosse chiara l’onestà. Una specie d’infanzia, nonostante la biografia e il tempo.

Secondo lei esiste una specificità che possa giustificare il concetto di ‘arte femminile’?

Credo che in ogni vita esistano diverse specificità che si concatenano tra loro. Per me, in questa Italia, o se vogliamo in questa Europa, in questo occidente industrializzato dove si torna a morire di fame, dove si entra in guerra con missioni di pace, dove si è insabbiata la cultura con un progressivo abbrutimento morale, incluso il fatto che si è perlopiù indifferenti di fronte all’enormità delle violenze fisiche, sessuali, psicologiche, economiche, di fronte a forme di controllo, ricatto e intimidazione sofferte dalle donne, credo che la specificità non sia di un’arte femminile, ma di una vita femminile. Quella dei generi è certamente una specificità anche nell’arte, che chiede alle donne una resistenza quotidiana e talvolta una dignità strappata a morsi. Parlarne è già un fatto politico e anche artistico.

Abbiamo voluto fare un dono
per questo dono abbiamo desiderato un luogo
e nel luogo un tavolo e sul tavolo pane.
Abbiamo desiderato parole, parole incomprensibili
parole che noi non capiamo.
Il nostro lavoro è la comprensione.
Il nostro rischio è un dono.
Qui c’è posto per sedersi, c’è roba da mangiare
entra quando vuoi, quando vuoi scappa.
Noi viviamo di solitudini, solitudine è per noi
lo stare del sole al cielo.
Noi soli, noi astri tesi, noi uno tra i tanti.
Questa fortezza è sabbia. L’acqua la scioglie.
Non ci sono soldati qui ma custodi
non soldati ma custodi.
Qui, sul confine qui della parola, dove il linguaggio
anche ci è patria e sconosciuta
cercheremo ancora le parole per dire
e le parole per fare.
Tu stai appoggiato appena nella tua dimora.

Michela Chessa