Valentina Acava Mmaka

Intervista a Valentina Acava Mmaka: scrittrice-testimone della storia africana

Due anni fa il mensile “Uno sguardo al femminile” ha affrontato un tema caro a me e ai miei studi comparatistici: il complesso e sfaccettato fenomeno migratorio, analizzato da me e dalle mie colleghe, come sempre, in chiave femminile. In questa intervista ho chiesto alla scrittrice Valentina Acava Mmaka di offrire ai lettori un contributo utile per comprendere, dal di dentro, questo fenomeno multiforme, offrendoci una testimonianza diretta della propria identità multiculturale e, al contempo, della complessa realtà sociale africana.

Valentina Acava Mmaka inizia il suo percorso lavorativo come mediatrice interculturale, attività che svolge nelle scuole e attraverso la quale contribuisce alla creazione di un legame tra la cultura africana e quella italiana. Mantenendo il medesimo approccio di mutuo scambio, prosegue poi con l’attività di scrittrice, pubblicando in Italia tre libri di favole didattiche per bambini. Nel suo ruolo di educatrice la Mmaka ha travalicato l’ambito più fertile dell’infanzia, occupandosi anche di tematiche delicate, come quella delle mutilazioni genitali femminili. L’arte, nelle sue diverse forme, dalla scrittura al teatro, diventa per quest’artista, donna ed educatrice, uno strumento in grado di produrre un cambiamento profondo nella coscienza delle persone, educandole all’accettazione e al confronto con l’altro. La terra africana, con la sua storia di sangue e, allo stesso tempo, con la complessità e la bellezza delle proprie donne, trova nelle parole e nelle iniziative promosse da quest’autrice, una rappresentazione incisiva, in grado di unire impegno sociale e slancio creativo.

Valentina Mmaka

  1. Lei è nata a Roma, ma ha vissuto gran parte della propria vita in Sudafrica, mi racconti la sua esperienza in questa terra.

Sono arrivata in Sudafrica piccolissima e qui ho vissuto fino all’età di  tredici anni. E’ stata l’esperienza più importante della mia vita, non solo perché coincideva con il periodo dell’infanzia e della prima adolescenza, ma anche per la complessità della società sudafricana di allora, quando il paese era sotto il giogo dell’apartheid. Questo essere dentro la Storia mi ha reso una testimone diretta di una società fondata sull’ingiustizia, su un principio di diseguaglianza che classificava l’umanità in “giusti” e “sbagliati” a seconda del colore della pelle.  Il filosofo Jean Grenier diceva: “Esiste in ogni vita,  soprattutto al suo inizio, un attimo che decide tutto”. Per me quell’attimo che ha deciso tutto è stato il Sudafrica. La formazione umana e intellettuale che questo paese mi ha dato, ha contribuito a plasmare chi sono oggi e senza di essa probabilmente niente di quello che ho fatto finora sarebbe esistito.

  1. Come ha avuto inizio il suo lavoro di mediatrice interculturale, cosa l’ha spinta verso quest’attività?

Ho cominciato a svolgere l’attività di mediazione collaborando con le scuole, proponendo una serie di laboratori ludico – didattici, condividendo tutte le conoscenze che ho acquisito nella mia vita in Africa, non solo in Sudafrica ma anche in Kenya, Tanzania, Zanzibar dove ho vissuto un’altra parte importantissima della mia esistenza: laboratori di fiabe, laboratori di giocattoli sostenibili costruiti con materiali essenziali, laboratori di teatro ispirati alla tradizione favolistica di diverse culture africane, etc… Ho poi scritto e pubblicato in Italia tre libri per bambini in cui ho affrontato diverse tematiche universali, quali la tutela ambientale, la pace, la diversità, sotto una prospettiva diversa, raccontandola dal punto di vista dei bambini africani e proponendo “soluzioni” vicine al sentire e al pensare dei popoli africani protagonisti.

  1. Lei ha iniziato a scrivere per documentare la realtà africana, ma sono le donne africane le vere protagoniste, perché questa scelta?

Non so se si tratti di una scelta razionale o piuttosto inconscia. Le donne sono una parte importante della mia vita. Ho una famiglia matriarcale, tre generazioni di donne che inevitabilmente influiscono sulla mia vita quotidiana. Sono cresciuta circondata da donne, in Sudafrica il mio punto di riferimento era Sera, la mia bambinaia, una seconda madre che mi ha guidata nei meandri di un paese che viveva nell’oscurità.

Non solo le donne africane, tutte le donne del mondo rappresentano la forza creativa capace di accendere passioni, superare ostacoli, inventare il nuovo rinnovandosi.

La consapevolezza, la coscienza di sé, il coraggio di mediare nelle situazioni più disparate, la capacità di inventare un tempo adatto a superare le difficoltà, un tempo che non è né il presente né  il futuro, ma un tempo mentale, emotivo, di transizione, che smussa gli angoli e rende le curve meno insidiose, sono peculiarità che appartengono all’essere donna.

  1. Quali sono, secondo lei, le peculiarità della letteratura africana e di quella della migrazione?

La letteratura africana ha il merito di essere espressione di un impegno politico che si rinnova costantemente. Ieri era il colonialismo, oggi è l’imperialismo economico dell’occidente o fenomeni come la corruzione o il terrorismo, ma certamente oggi ha un ruolo fondamentale anche nella creazione di quella che Nadine Gordimer chiama una cultura letteraria, ovvero la possibilità che lo scrittore in quanto artista possa scrivere ed essere letto, che la sua opera possa essere diffusa e rappresentare i cambiamenti della sua società, unendo l’impegno politico e la qualità della sua creazione letteraria.

In quanto alla letteratura della migrazione, credo sia una denominazione che andrebbe superata per cominciare a pensare agli scrittori in quanto tali, indipendentemente dalla loro provenienza o dall’aria linguistica cui appartengono. E’ inevitabile che ogni scrittore porta in sé la sua esperienza identitaria e se si tratta di uno scrittore che viene da un paese diverso da quello in cui vive, è portatore di un immaginario che gli è proprio fin dalla nascita. Penso a Rushdie o Kuerishi, a Monica Ali, Bapsi Sidhwa, Jumpa Lahiri, Anita Desai oggi vivono in paesi diversi da quelli originari, ma sono considerati scrittori indipendentemente dalla loro provenienza geografica.

  1. Nello spettacolo “The Cut – Lo Strappo” lei racconta il fenomeno delle mutilazioni femminili, può spiegarci i motivi che spingono a questa pratica e come vivono le donne africane?

Uno degli scopi di questo spettacolo è dire che le MGF non sono una pratica legata solo ed esclusivamente al Continente Africano, così come non sono previste dall’Islam e  nessuna altra religione la prescrive. Detto questo il continente africano è quello in cui viene maggiormente praticata, ma ripeto è un fenomeno mondiale. Nel mondo sono 140 milioni le donne che rischiano di essere mutilate. In Europa 500 mila sono le donne che portano sul loro corpo questa violenza e 180 mila sono a rischio. In Italia sono 35 mila le donne che hanno già subito questa pratica e 3000 ogni anno sono le bambine che rischiano di esservi sottoposte. Si pensa che sia un problema lontano dalle nostre realtà, ma non è così, riguarda tutti noi. In quanto genitore ed educatore sono consapevole che le mie figlie potrebbero incontrare nelle loro classi compagne destinate a subire le mutilazioni. Oggi grazie a questo mio impegno artistico anche loro hanno acquisito consapevolezza su questa tematica e credo sia un passo avanti cui tutti dovremmo prepararci per meglio confrontarci con chi oggi non è in grado di esprimere e condividere il dolore e la paura che stanno dentro e dietro questa esperienza,  soprattutto con chi vuole cambiare e non sa come farlo.

La cronaca ci offre spesso notizie drammatiche di bambine morte per via delle mutilazioni, così come di condanne per coloro che continuano, nonostante i divieti imposti dalla legislazione, a praticarle. Occorre prendere coscienza del fatto che la legge da sola non basta. La cultura tradizionale prende il sopravvento sulla legge, quindi questo vuol dire che solo dall’interno delle culture che la praticano, può avvenire il cambiamento. Quando ci si avvicina a un  tema così delicato come quello dei diritti umani, e in particolare quello delle mutilazioni, che pensiamo essere  così “lontano” dal nostro modo di vivere, spesso si assume un atteggiamento inquisitorio, si tende a giudicare senza conoscere e questo non aiuta a proteggere chi è a rischio. La consapevolezza interna alle comunità che le praticano è la chiave di svolta perché le MGF vengano definitivamente messe a bando. Fortunatamente ci sono iniziative molto valide nel mondo per scoraggiare che le MGF vengano praticate, e anche rilevanti successi in termini di totale abbandono della pratica presso numerose culture in diversi paesi. Il contesto migratorio dovrebbe essere quello in cui cominciare il cambiamento da poter poi trasferire nei paesi di origine dai diretti interessati. Occorre dare vita ad un percorso che possa costituire un valido strumento di conoscenza, condivisone, consapevolezza mirato a un cambiamento radicale. La scuola è il primo punto di partenza. Questo è un compito che spetta a tutti indistintamente.

  1. Mi parli del lavoro realizzato con questo collettivo di donne immigrate africane.

Nel 2011 ho formato un collettivo di donne a Cape Town, in Sudafrica, il Gugu Women Lab. Come mi era già accaduto per Io… donna… immigrata … anni prima, l’idea era quella di creare un gruppo di lavoro che avesse il desiderio di sperimentare collettivamente la scrittura intendendo  la parola, l’immaginario come  strumenti forti per veicolare idee, proposte di cambiamento, discussioni, confronti, con particolare attenzione ai diritti umani, facendo tesoro della immensa esperienza sudafricana maturata dai grandi poeti, scrittori, musicisti che hanno lottato contro l’apartheid e le ingiustizie del sistema, dando vita a movimenti di liberazione proprio attraverso la loro arte. Le MGF sono uno dei temi emersi nel lavoro di gruppo essendo un’ esperienza vissuta da alcune delle donne del Gugu Women Lab.

  1. Sul suo blog ha citato questa frase di Ugo di San Vittore: “L’uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto  è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero”. Immagino che questa considerazione rispecchi la sua condizione, la sua coscienza multipla, legata ai luoghi nei quali ha vissuto, che le permette di comprendere il fenomeno migratorio dal di dentro. Cosa comporta questo in termini identitari?

Ho letto per la prima volta questa frase del Monaco Ugo di S. Vittore nel bellissimo libro di Edward Said “Orientalismo”, un libro importante per me. Oggi posso dire che questa condizione mi rappresenta, anche se l’acquisizione completa di essa richiede ancora esperienza. Credo di essere arrivata ad un punto molto vicino al considerarmi il terzo uomo descritto dal monaco. A livello identitario rappresenta metaforicamente tutto il viaggio che è la vita umana, dal suo inizio ad oggi. Più ci si sposta sulla mappa del mondo, più si ha la possibilità di mettersi a confronto con il fluire nella circolarità degli esseri umani, più si ha la consapevolezza che in fondo l’idea di “purezza”, di origini, di radici è precaria,  inesistente.

  1. Quali sono i suoi progetti futuri?

 Continuare a promuovere THE CUT – LO STRAPPO. Da marzo lo spettacolo ha viaggiato in giro per l’Italia con la collaborazione di Nella Bozzano del Teatro dell’Aria di Genova. Nella ha dato voce alle donne del Gugu Women Lab, interpretando intensamente le loro storie. Pirandellianamente parlando, si è fatta  guidare dal loro dolore, ma anche dalla loro risoluzione e dalla loro forza. Dopo l’estate tornerà in Italia per cercare di raggiungere sempre più luoghi e persone, anche nelle scuole se sarà possibile. Credo sia un passo  fondamentale quello di cominciare a parlarne nelle scuole . Inoltre c’è in cantiere di portarlo in Gran Bretagna e in Francia. Sto anche  ideando la lavorazione ad un documentario che parli delle MGF in forma narrata, cercando di abbracciare paesi di immigrazione diversi. Sono convinta che i grandi temi, soprattutto i diritti umani, riescano meglio ad essere percepiti attraverso il linguaggio creativo. Per seguire il progetto ci si può collegare al sito internet di Valentina:

http://valentinammaka.blogspot.com.

Michela Chessa